incipit

Chissà perché non costruiscono più panchine di legno. Quelle verdi, che cigolavano solo a riderci sopra. Era sempre caldo il legno, e ci potevi scrivere con un temperino come sul diario. Incidere un nome, fermare un’ora e un giorno, intagliare un cuore. Chissà perché. Anche quelle che ci sono ora sono verdi ma il ferro mi gela la schiena e scriverci fa stringere i denti e le parole rugginose sembrano cicatrici infette...

martedì 31 dicembre 2013

Ci sono luoghi...

 
Ci sono luoghi nei quali il tempo sembra dilatarsi esasperando l’emozioni. Penso alle sale d’aspetto, dove appenderei un cartello con su scritto La noia è uguale per tutti. Anche gli uffici postali appartengono a quella categoria e le aule di qualche facoltà universitaria, anche se queste lo diventano in funzione della lezione o del professore. Il laboratorio di Tinto è l’esatto opposto, un luogo dove il tempo scorre così velocemente che potrei vedere le ombre girare nella stanza. La verità è che le ombre le crea quella piccola lampada sul tavolo da lavoro, per cui rimangono immobili.  Ma se solo ci arrivasse un raggio di sole, allora sarebbe come ho detto. Saranno quei vecchi giocattoli, i loro colori, dove ne rimangono, o l’opera certosina di Tinto attorno a un pezzo di latta, o il ritmo delle sue parole, qualsiasi cosa sia ha il potere di catturarmi come una mosca nella ragnatela e rimango ore avviluppato all’immagine di una macchinina, o al suono della voce del vecchio giocattolaio. Quale sia il vero nome non l’ho mai chiesto e credo che nemmeno se lo ricordi, e la sua età… La sua età, beh, è una non età. Ho detto che è vecchio solo perché l’ho sempre visto così, con il grembiule rattoppato, gli occhiali da vista spessi come un fondo di bottiglia, i capelli arruffati, d’un colore indefinito, e la barba sempre incolta. Se ne sta tutto il giorno appollaiato sullo sgabello, coi gomiti sul tavolo da lavoro e la lente d’ingrandimento in mano a ispezionare quei gingilli di latta, curvo come un corvo canuto. La pelle sembra appesa alle ossa, bianca e glabra. Dietro le lenti, gli occhi affossati e rossi sembrano meteoriti sospesi nello spazio, e ovunque ti sposti ti seguono, leggono, scoprono i tuoi pensieri. Potrebbe avere cinquanta, cento, anche mille anni, e non mi stupirebbe. Di sicuro ha l’età in cui si sanno le cose, si conosce la vita e non ci si aspetta niente, quindi è vecchio, così la penso.

venerdì 13 dicembre 2013

Tinto


Finalmente la storia che volevo consegnare all'editore prima di Natale è stata consegnata. Sarà la terza della "Trilogia di Karalis", col titolo non ancora definitivo di "Tinto". Eccone uno stralcio...
"... sposta la lampada, si sfila gli occhiali da vista e li lascia ciondolanti sul grembiule, legati da un giro di spago attorno al collo, poi si alza dalla sedia e si dirige verso la cassa coi giocattoli rotti e prende quello in cima alla catasta.
- Prendi questo sonaglio per esempio. Li vedi i fori nella latta? Qui c’erano attaccati due pezzi di filo di cotone, un nodo all’estremità impediva loro di uscire dalle fessure che adesso vedi, e una piccola pallina di legno oppure una mollettina di lamiera legata all’altra estremità produceva il tam tam tipico del tamburo. Bastava chiudere il manico fra le mani, strofinarle velocemente e le palline battevano sulla latta di una delle due facce. Avrà setttant’anni. Era di un bambino con le mani piccole e gli occhi grandi e neri. Immagina una domenica... Tutta la famiglia passeggia per il Corso, coll’abito buono, scende verso la darsena, dall’altra parte di Via Roma. In mezzo alla polvere della discesa s’alzano fogli di giornale e foglie in turbini sollevati dal maestrale. La donna si tiene il velo di pizzo nero ricamato da sua madre, stringe il nodo sotto al collo, Il padre lascia la mano del bambino, dice alla moglie di aspettare, si allontana un attimo, sparisce in una drogheria e ne esce con il sonaglio in mano. Il bambino lo vede e comincia a battere le mani dalla gioia, la mamma sorride e guarda il marito con occhi pieni d’amore. Adesso riprendono a scendere per il corso, il bambino davanti che saltella col tamburello fra le mani, il padre e la madre dietro, felici osservano il figlioletto. Quando tornerai?, chiede la donna al marito. Lui le stringe la mano al fianco e lo sguardo si perde nel mare. A casa lo aspetta lo zaino militare e la divisa sulla sedia.
Soffia sul tamburello per cacciare la polvere, poi lo accarezza delicatamente.
- E poi?
- E poi cosa?
- E poi, continua.
- Vedi? Ho inventato tutto. Ho arrangiato una storia facendo affidamento solo sull’età del tamburello. La verità è che non so niente di questo giocattolo..."

Dinamiche editoriali

Negli ultimi giorni d'ottobre consegno la "Trilogia di Karalis" alla mia casa editrice. L'amica Carmen Salis, che impersona la casa editrice, mi suggerisce di pubblicare a parte il terzo romanzo della trilogia a causa della differenza stilistica e del tema trattato. Suggerimento che accolgo e approvo ma... ho deciso che uscirò con la Trilogia, così metto da parte "La città piatta" e, il 5 novembre, comincio a battere sulla tastiera le prime pagine del nuovo romanzo. Che mi sono imposto di terminare prima di Natale. Il titolo provvisorio è "Tinto". Ecco alcune righe...

"...Il vero laboratorio era costituito da un tavolo traballante che si reggeva con spessori di cartone sotto le gambe, una vecchia lampada da tavolo degli anni cinquanta, un saldatore a stagno e una cassetta zeppa di cacciaviti, martelletti, pinze, punteruoli e forbici da lattoniere. In un barattolo di metallo c'erano pennelli di tutte le forme e dimensioni.  Le pareti erano occupate da scheletri di vecchie librerie sui cui ripiani giacevano giocattoli di latta di tutte le epoche. Sparse attorno al tavolo, vecchie casse di legno coi manici di spago contenevano ruote, chiavi, molle, frizioni e resti di  vecchi modellini che utilizzava per recuperare pezzi di ricambio. Sull’anta di legno che di notte proteggeva la porta vetrata all’ingresso, era appesa una vecchia targa di metallo, grande come un vassoio, di un verde inglese corroso dal tempo. Si riconosceva a malapena la stampa di una vecchia motrice di treno e la scritta Tin Toys. Per i vecchi abitanti di Castello quella scritta aveva il suono di un campanello, niente di più, da quello il soprannome di Tinto. Così lo chiamavano tutti e così ormai si presentava, Tinto."